Narrare per uscire dalla ripetitività del discorso

28.12.2020

"Abbondo di discorsi

manco di racconti"


Il counselor è un professionista che sa ascoltare.

In modo particolare sa "come" ascoltare il cliente che descrive la sua attuale situazione, le difficoltà riscontrate e i tentativi messi in atto per affrontarla. La comunicazione della sua vicenda passa attraverso il linguaggio verbale e non verbale del cliente; la sua narrazione mette in scena una serie di relazioni a livelli diversi: con se stesso, con gli altri che appartengono ai sistemi più vicini (di coppia, familiari, lavorativi, sociali), e si rapporta con sistemi più lontani (trasferimenti legati a cambiamenti lavorativi o legati a cambiamenti di stati, come per esempio la salute).

Ma, "cosa" ascolta il counselor, quando il cliente espone la sua situazione?

Sono gli "elementi, i fatti, i dati, le oggettività, il sapere" del cliente che arrivano da subito all'orecchio del counselor. È il discorso che tiene, e non tanto la narrazione che poco a poco si costruisce trovando nuove modalità per descrivere il momento e trovarne vie d'uscita fino ad allora inimmaginate, che cerca di attirare l'attenzione del professionista per dichiarare la sua resa di fronte a una situazione per cui non c'è soluzione. In effetti, se il cliente ha deciso di rivolgersi al counselor è proprio per giustificare, in prima battuta, come tutti i tentativi fatti non abbiano prodotto i risultati sperati, e in un certo senso ne vuol dar prova durante il primo colloquio.

L'ambivalenza del primo colloquio, risiede proprio in questo: richiedere aiuto per una situazione che si dà già per persa, perché se fosse stato possibile trovare una soluzione, questa sarebbe già stata trovata dal cliente; allo stesso tempo, il cliente ha fiducia nel "miracolo" di qualcuno che è "supposto saperne di più" e che in qualche modo troverà la soluzione per la sua situazione, una risposta appropriata data "al posto suo", perché dopo l'esposizione dei fatti, resta poco da dire, se non rimettersi all'abilità di chi saprà tirar fuori il "coniglio dal cilindro".

Se c'è allora un'abilità di cui dovrà far prova il counselor fin dalle prime battute, è proprio quella di far uscire, portare fuori costantemente il cliente dal suo "discorso" che lo chiude, lo ferma, aprendo nuove possibilità "narrative". 

Le risorse sono nella parola.

Se la parola è "confiscata" dalla realtà o dal discorso degli altri, dal senso comune o da un discorso che pretende di dire l'ultima parola per cui le "cose stanno così" e non c'è altro da dire, il cliente è chiuso nella sua rappresentazione e anche il counselor rischia di essere immobilizzato sulla scena dell'"impossibilità" di vedere, ascoltare dell'"altro". Le spiegazioni del cliente tendono a selezionare e combinare i fatti per cui ogni effetto ha una sua causa, ogni nesso appare logico o illogico nella visione duale che non lascia posto a una terza alternativa (tertium non datur, come insegnava Aristotele).

Se invece, il cliente insieme al counselor si affida al ritmo libero delle "cose" che vengono incontrate e raccolte poco a poco nel suo racconto, seguendo il filo dei colloqui, sarà in grado di uscire dalla "ripetizione" del discorso e "inventare" percorsi che fanno accedere ad altre versioni possibili per la stessa situazione iniziale. Ecco allora, che il non-sapere del cliente e del counselor, fa accedere a un racconto che apre su nuovi scenari, libera nuove energie e motiva a intraprendere nuovi percorsi capaci di trovare una soluzione a ciò che sembrava privo di vie d'uscita.

Non si tratta di "magia", ma di "sorpresa" continua sul filo della narrazione e dell'ascolto. L'una ha bisogno dell'altra, e la qualità della prima dipende dalla professionalità del secondo. La via d'uscita la si trova da sé non senza l'altro, in modo efficace e in tempi brevi.

© 2020 Edoardo Gianmaria Formigoni, Professional Counselor
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